La riforma è organica e va votata senza spacchettamenti
di Lorenzo Cuocolo
Pubblicato sul Secolo XIX
Matteo Renzi ha aperto la campagna per il referendum costituzionale, ed è dunque il momento di capire cosa saremo chiamati a decidere in ottobre.
Anzitutto è da chiarire che la riforma costituzionale è già stata approvata dal Parlamento, con ben sei “letture”, cioè sei votazioni di Camera e Senato. L’art. 138 della Costituzione, però, prevede che, se la riforma è approvata dal Parlamento con una maggioranza compresa tra il 50% e i due terzi dei componenti, essa possa essere sottoposta al giudizio del popolo, appunto con un referendum. Tale atto è stato definito “confermativo” o “oppositivo”. Ma è solo una questione di punti di vista: per i sostenitori della riforma, il voto popolare ha effetto confermativo di quanto già deciso dal Parlamento. Per gli altri, invece, il referendum è oppositivo, perché mira a contrastare la scelta parlamentare.
Il referendum costituzionale, come che lo si voglia intendere, è molto diverso da quello abrogativo. Soprattutto non c’è il temibile “quorum” strutturale. Ciò significa che il referendum sarà valido a prescindere dal numero di cittadini che si recherà alle urne. Non sarà da raggiungere la quota del 50%: è sufficiente che i sì superino i no. Dunque, se si vuole riformare la Costituzione, e con essa il sistema politico e istituzionale, bisogna votare sì. Se, al contrario, si vuole mantenere il sistema attuale, bisogna votare no.
Alcuni giuristi, per mettere i bastoni tra le ruote dei riformatori, hanno recentemente proposto lo “spacchettamento” dei quesiti. Si vuole, cioè, che l’elettore sia chiamato ad esprimere più di un voto: uno su ciascuna parte della Costituzione sottoposta a riforma. Questa posizione, però, non ha giustificazioni sotto il profilo giuridico.
Il voto, infatti, avrà ad oggetto una riforma complessa, ma che è stata concepita organicamente. Su di essa, infatti, le Camere si sono pronunciate con un unico voto finale.
Non c’è spazio per i distinguo, per le sottigliezze, che pure ciascuno di noi con la propria capacità critica può compiere. I cittadini devono solo esprimere il proprio consenso o dissenso rispetto al progetto finale approvato dal Parlamento.
Questa impostazione è confermata anche dalle norme. Nessun indizio contrario si rinviene nell’art. 138 della Costituzione. E, inoltre, l’art. 4 della legge 352 del 1970, che dà attuazione al referendum costituzionale, precisa che nella richiesta di referendum deve essere indicata la legge di riforma che si intende sottoporre al voto popolare. Si badi: l’intera legge, non singole parti. E poi: chi deciderebbe come “spacchettare”? Senza dire che la riforma tocca tanti temi diversi, che però si tengono e si legano l’uno con l’altro. Non vi è spazio, dunque, per lo “spacchettamento”.
Anche la prassi conferma questa impostazione. La storia repubblicana conta due soli referendum costituzionali: quello del 2001, sulla cd. riforma del Titolo V, e quello del 2006, sulla riforma Calderoli-Berlusconi. Il primo ebbe esito positivo, il secondo negativo. Ma, entrambi, furono su un solo quesito, nonostante le riforme fossero complesse e ricche di diversi profili.
A ottobre, dunque, il nostro voto servirà a confermare una scelta già adottata con larga maggioranza dal Parlamento, volta a superare alcune delle nostre storture istituzionali. Oppure ad affossarla, senza però che ciò porti con sé un’alternativa: il no alla riforma, cioè, significa tenere tutto ingessato. Tutto come prima.
Lorenzo Cuocolo
Professore di Diritto comparato
Università Bocconi, Milano